Psicofarmaci e rivoveri psichiatrici aumentano del 30% il rischio suicidio. I dati di uno studio danese

Psicofarmaci e rivoveri psichiatrici aumentano del 30% il rischio suicidio. I dati di uno studio danese
 

Il ricovero in ospedale psichiatrico aumenta la probabilità per una persona di uccidersi di 44,3 volte.

Secondo uno studio danese pubblicato sulla rivista specializzata Social Psychiatry and Psychiatric Epidemiology, passato chiaramente nell’oblio dei media, si sottolinea come l’assunzione di psicofarmaci, le visite psichiatriche e ricoveri in reparti appositi può aumentare fino al 30% il rischio di suicidio. Lo riporta Giovanni Fez sul sito il cambiamento.it che sottolinea anche come lo studio sia stato presentato da un editoriale di due psichiatri australiani secondo cui: «Ci sono pochi dubbi sul fatto che il suicidio sia associato allo stigma e al trauma che si subiscono nella comunità. E’ quindi assolutamente plausibile che lo stigma e il trauma dovuti a trattamenti psichiatrici (soprattutto quelli coatti) possano contribuire ad aggravare la situazione (…). Tutto ciò ci fa capire quanto sia urgente che prestiamo maggiore attenzione a questi problemi». 
Prendendo a riferimento il campione dei suicidi nazionali negli anni tra il 1996 e il 2009 e il trattamento psichiatrico ricevuto l’anno prima, i ricercatori danesi hanno evidenziato come i suicidi erano 2.429, i casi controllo 50.323. La conclusione è che l’assunzione di psicofarmaci nell’anno precedente il suicidio rende quest’ultimo 5,8 volte più probabile; il contatto con una clinica psichiatrica aumenta la probabilità di suicidio di 8,2 volte; le visite psichiatriche d’urgenza aumentano la probabilità di 27,9 volte; il ricovero in ospedale psichiatrico aumenta la probabilità per una persona di uccidersi di 44,3 volte. 
Quello danese non è comunque l’unico studio che lascia intendere come il moderno sistema occidentale di affrontare il disagio mentale mostri tutte le sue lacune e i suoi rischi. E qui, volendo, come suggerisce bene anche Wipond, dobbiamo allora chiederci se il “disagio mentale” sia veramente una “malattia del cervello” oppure no. In fondo non sono ancora stati individuati  marker biologici per le sindromi descritte nel famoso DSM, il manuale diagnostico e statistico delle malattie mentali, formidabile arma diagnostica in mano agli psichiatri. Naturalmente ipotizzare che tutto sia dovuto a disfunzioni che si curano con farmaci non può che fare bene all’industria farmaceutica; occorre capire se fa bene anche alla salute pubblica. Poi si pone il problema delle alternative possibili, che si prospettano impegnative su tutti i fronti, dalla presa in carico agli sforzi ed energie per affrontare il disagio mentale in una dimensione sociale. Qualcuno ha voglia o interesse a procedere su strade diverse? Forse poche persone, troppo poche. E quando la persona è sola, disperata, giudicata, all’angolo…che fa? Se gli prospettano un’unica e sola possibilità o strada…rifiuterà di seguirla? E se poi chi rifiuta di seguirla viene costretto? Ma qui si apre (o si potrebbe aprire) una grande parentesi, quella di cosa è diventata la nostra vita in questa comunità sociale. 
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